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EAT ME(AT)
[2017]
Una performance scritta e agita
da Giovanna Lacedra
con la partecipazione di Luna Luca

“Che cosa mi interessa?

La passione. L’ossessione.

Le ho conosciute entrambe e so che la linea di demarcazione

è sottile e crudele come un coltello veneziano.”

 

[Jeanette Winterson | Passion]

Le parole hanno un peso. Specifico.

E quando giudicano, stigmatizzano, umiliano ed  etichettano diventano un’ ignobile forma di violenza verbale.

Che giorno dopo giorno sottrae dignità a chi la subisce.

La violenza verbale è una forma di abuso manipolatorio difficilmente riconoscibile. Perché avviene in privato, e talvolta tra le righe o sottovoce. Non necessariamente grida o si palesa. Può essere agita alle spalle della vittima , o con toni delicati e apparentemente “correttivi”.  Ma quando c’è giudizio e soprattutto pregiudizio, non può esservi alcuna forma di amore pulito.

La violenza verbale, come anche il gaslighting, serpeggia all’interno di legami apparentemente sani e felici.  Non necessariamente si palesa  nel clamore. Può verificarsi in maniera assai subdola  e per questa ragione è spesso difficile da riconoscere.

Ma quando le parole fanno male, quando ci fendono da qualche parte, dentro, quando da qualche parte dentro di noi bruciano, allora significa che non sono sane. E quando le parole che l’altro ci dice ci fanno provare tutto questo, non sarà mai per un nostro errore di interpretazione, né tanto meno a causa di qualcosa che ci siamo meritati. Per quanto tenteremo di boicottarci, la realtà dei fatti sarà sempre più forte di ogni nostro tentativo.

Se qualcosa fa male, non smette. Siamo noi che dobbiamo fermarla.

La violenza verbale è VIOLENZA REALE. 

E’ fatta di parole come armi; parole che vampirizzano e infragiliscono.

Tutto quelle che serve, allora, è prendere consapevolezza.

E imparare a chiamare le cose con il proprio nome.

EAT ME(AT) | BLOOD AND WORDS

is an action that reflects on the violence and the manipulative character of words. Words that, if repeated over time, make brittle the one in a relationship who suffers them, manipulating his or her psyche in a sneaky and hardly recognizable manner. Because in every bond or interaction between two persons, words always have a specific weight. And in some cases they become a real psychological violence.

[©Giovanna Lacedra 2017]

TAPPA 1: Palazzo Risolo - Specchia (Lecce), in occasione del vernissage della rassegna "Le Fil Rouge" a cura di Viviana Cazzato. 30 luglio 2017

Recensione su "EAT ME(AT) | Blood and Words" performance di Giovanna Lacedra

 

 

Ieri sera presso Palazzo Risolo in Piazza del Popolo a Specchia (Lecce) nel cuore del vernissage

di LE FIL ROUGE III Edizione (Rassegna di arti visive a cura di Viviana Cazzato e con il supporto organizzativo di Francesco Luca) è stata agita e partecipata "EAT ME(AT) | Blood and Words", una Performance inedita di Giovanna Lacedra.

Il Castello Risolo è un edificio fortificato costruito nel XVI secolo, con struttura inizialmente quadrangolare di impianto tardo quattrocentesco costruito in tufo, impasto di calce e terra rossa locale. Una location importante che si è presentata nuda nelle mura e nelle volte, quasi fossero silenziosamente maestose e capaci di autorità.

I/le partecipanti avevano ricevuto e accolto la richiesta di avvicinarsi all’evento conservando il silenzio, richiesta non da poco per chi come noi del XXI secolo siamo necessariamente connessi e pronti a riempire di parole reale e virtuale.

E il silenzio è “condicio sine qua non” per avvicinare le parole, non solo nel singolare e comunque breve esperimento di una performance artistica ma, utinam, anche in quei luoghi non luoghi in cui simuliamo vite. Ieri sera il silenzio era richiesta ardita di farsi esperienza incarnata.

Come una classe ben educata, quasi addestrata ai buoni comportamenti, i/le partecipanti si sono situati/e nella sala assumendo una forma di parentesi semicircolare; qualcuno si è accoccolato a terra quasi a meritare una visione più dal di dentro.

Pochi elementi annunciavano la “messa in scena” di EAT ME(AT), tra cui una truculenta bistecca al centro di uno spazio in cui ri_scrivere e re_incarnare altre parole.

La performer Giovanna Lacedra ha fatto ingresso avvolta in un abito da geisha dispensando petali rossi alle mani incerte dei/lle presenti, come in un gesto lieve di accoglienza e di cura per quanto dopo sarebbe avvenuto.

Compiuto quel lento saluto dedicato agli occhi di ciascuno/a, Giovanna Lacedra si è portata al fondo della sala, con il volto contro il muro bianco quasi fosse anch’esso nudo di parole, silenzioso,  e con qualche immagine sospesa addosso, ha smesso l’abito per rimanere nuda dalla pancia ai seni. I seni erano avvolti in una fitta e ripetuta benda di pellicola, quella che copiosamente usiamo in cucina per avvolgere le carni, appunto. Carne in pellicola, cibo stretto in una pellicola così i suoi seni in potenza forieri di nutrimento erano stretti in una materia incompatibile. I seni costretti e negati, come nei secoli di cui il castello porta la storia, a contenimento e negazione di sessualità, a castrazione di desideri, a censura di corpi di donne.

Giovanna, accoccolata al centro, ha fatto scorrere scampoli di un linguaggio che incarnato da molti e autenticamente nominato da pochi. Esibiva, con gesto lento, strisce di carta che sembravano pesanti, roventi e le mostrava, le porgeva ai/alle presenti quasi a dire “leggi dentro di te”, come certe maestre di provincia di qualche ventennio addietro suggerivano.

Ma “leggi dentro di te” era la provocazione, la sollecitazione a sentire quelle frasi come presenti in ciascun corpo: perché adoperate contro qualcuna o perché ricevute da qualcuno. Strisce di carta - frasi dure - le passava in un liquido rossastro contenuto in una bacinella di vetro trasparente e poi se le  incollava sulle braccia, sul corpo, sul volto, in ultimo sulla bocca per chiuderla.

Le frasi erano imbevute di un liquido che rimandava ad un sangue annacquato, privato del proprio rh distintivo, ridotto ad una colla, forse “Artiglio”.

Giovanna tratteneva i/le partecipanti facendo della parola e del silenzio un rito: la carne cibo era segno di corpi cannibalizzati attraverso la parola, e il suo proprio corpo sembrava violato e violentato da quelle strisce di parole performative e annichilenti.

Soltanto il gesto di cura di un’altra donna in scena ha aperto, ha sciolto le lacrime della stessa Giovanna e delle donne, in particolare,  presenti davanti a lei. Una donna giovanissima, di bellezza potente e acerba nel corpo e tanto sapiente nei gesti di sorellanza rivolti a Giovanna; Luna è il suo nome proprio, ha portato respiro al silenzio ed ha cambiato i linguaggi.

Giovanna, prima di lasciare il luogo ha ringraziato i/le partecipanti dicendo “Adesso andiamo a respirare”.

Luna aveva respirato, con ritmo di desiderio e di libertà, per tutto il tempo; così aveva fatto liberazione attorno.

 

 

 

Lecce, 31 luglio ’17

Graziella Lupo Pendinelli

Consulente Filosofica

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